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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Lo sport è un gioco?

Si avvicinano le Olimpiadi che si terranno a Parigi (26 luglio - 11 agosto di quest'anno) mai come stavolta in un’atmosfera di tensione dovuto a vari terrorismi e poche volte come in questo 2024 in un clima di divisione fra i popoli, alcuni di essi impegnati addirittura in guerre prossime all’Europa sia in senso geografico oppure politico.
Nonostante ciò, non mancano scritti e discorsi sui media gonfi di retorica inneggianti a presunte fraternità delle genti che, invece, sembrano spesso più propensi a battere record di scannamenti più che di primati sportivi.
Più che mai suona legittimo chiedersi Lo sport è un gioco? come recita una pubblicazione della casa editrice Raffaello Cortina.
L’autore è Philippe Descola
Titolare della cattedra di Antropologia della natura presso il Collège de France dal 2000 al 2019 e direttore del Laboratorio di antropologia sociale (LAS), fondato da Claude Lévi-Strauss, dal 2001 al 2013. Nel 2012 ha ricevuto la medaglia d’oro del CNRS (Centre national de la recherche scientifique).
Nelle edizioni Raffaello Cortina: Oltre natura e cultura https://www.raffaellocortina.it/scheda-libro/philippe-descola/oltre-natura-e-cultura-9788832852899-3434.html (2021).

Un ritratto delle origini e sviluppo del pensiero di Descola lo troviamo qui: “La tensione esistente fra etnografia e teoria (rilevante è il confronto con lo strutturalismo e il marxismo) confluisce nella volontà dell’autore di fare antropologia e di conseguenza sondare la possibilità di rintracciare generalizzazioni e alcune invarianti culturali relative ai sistemi di relazioni che coinvolgono umani e non umani in una prospettiva di superamento del dualismo fra natura e cultura. Questo percorso intellettuale porterà Descola a redigere e pubblicare il suo capolavoro, Par-delà nature et culture (2005) riproposto dall’editore Raffaello Cortina (Oltre natura e cultura). La prospettiva attraverso la quale l’antropologo francese riflette sullo sport è strettamente connessa a quanto contenuto nel volume del 2005, diventato ormai un classico dell’antropologia”.

Scrive Stefano Allovio nella sua lucidissima prefazione: “Lo sport indagato nella sua ampia accezione etnografica non può che ridefinire la propria essenza ed esistenza anche in relazione a ciò che nelle società tradizionali ricade all’interno della categoria di “gioco”. Qui, il confronto fra sport e gioco pare fornire un terreno di riflessione dove risulta complicato affermare con chiarezza cosa sia l’uno e l’altro. Descola non si sottrae a riflettere sul problema e come molti suoi colleghi sottolinea da un lato l’universalità delle pratiche ludiche e dall’altro la contrapposizione fra il gioco nelle società tradizionali, caratterizzato da maggiore cooperazione fra i partecipanti, e lo sport moderno, caratterizzato da maggiore competizione (…) Lo sport, dal canto suo, pur conservando molte caratteristiche del gioco (lo sport risulta un’attività di gioco particolare) ha regole codificate e prevede competizioni aventi uno specifico obiettivo; la modernità prodotta dall’Occidente sarebbe la matrice dalla quale scaturisce l’idea di sport, appunto, “moderno”. Esso sembra predisposto a ospitare una idea di gioco nel quale si prevede il trionfo di un partecipante sull’altro. Questa idea di gioco non è precisamente propria ed esclusiva al mondo moderno, ‘ma è stata, nel mondo moderno, completamente esacerbata rispetto a delle concezioni di gioco che privilegiano l’attività ludica al risultato’ ”.

Dalla presentazione editoriale.

«Prendiamo il calcio: per gli achuar dell’Amazzonia ecuadoriana, l’obiettivo non è che una squadra trionfi sull’altra. Come per molte altre società non moderne, ciò che è importante per loro è il gioco in sé, prendere il pallone e segnare facendo in modo che alla fine della partita non ci siano diseguaglianze. In questo testo Philippe Descola mette a confronto il nostro rapporto con lo sport e il gioco con quello delle società premoderne. L’Occidente ha imposto al resto del mondo il suo modello di sport competitivo, che porta con sé diseguaglianze, individualismo e sentimenti nazionali esacerbati. Descola rilegge il concetto a partire dalle sue riflessioni sul dualismo natura-cultura, arrivando a toccare la questione dell’ibridazione tra l’uomo e la macchina».

Per leggere un estratto: CLIC .

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Philippe Descola
Lo sport è un gioco?
Prefazione di Stefano Allovio
112 Pagine * 11.00 euro
E-book (Epub): 9.55 euro
Edizioni Raffaello Cortina


Lapidi


«In origine avevo intenzione di intitolare questo libro La strada per il paradiso, poi ho optato per Lapidi. La scelta del titolo riflette quattro mie volontà: la prima, erigere una lapide in onore di mio padre, morto di fame nel 1959; la seconda, erigere una lapide per i 36 milioni di cinesi morti di fame; la terza, erigere una lapide al sistema che ha generato la Grande Carestia. La quarta volontà emerse quando ero a metà della stesura del libro: mi trovavo all’ospedale Xuanwu, a Pechino, per accertamenti clinici e scoprii di avere “mutazioni patologiche”». Questo mi spinse ad accelerare il processo di scrittura dell’opera: ero determinato a completarla per erigere una lapide anche a me stesso. Fortunatamente, un esame successivo escluse la presenza di malattie, ma scrivere un libro di questo genere comporta considerevoli rischi politici, e se perciò dovesse accadermi qualcosa di irreparabile, quest’opera testimonierà che ho sacrificato la vita per far valere le mie idee, e sarà la mia lapide.
Naturalmente, le mie volontà principali sono le prime tre».

Così comincia Lapidi La Grande Carestia in Cina pubblicato dalla casa editrice Adelphi.
L’autore è Yang Jisheng nato nel 1940.
Giornalista e scrittore. I suoi lavori includono “Tombstone”, un resoconto completo della grande carestia cinese durante il cosiddetto grande balzo in avanti, e “The World Turned Upside Down”, una storia della Rivoluzione culturale.

Una stima della tragedia così è riferita nel libro.
«Come ci si rappresenta la morte per fame di 36 milioni di persone? È una cifra equivalente a 450 volte il numero delle persone uccise dalla bomba atomica sganciata su Nagasaki il 9 agosto 1945; è pari a 150 volte il numero delle vittime del terremoto di Tangshan del 28 luglio 1976; supera persino il numero dei morti della prima guerra mondiale… Niente urla strazianti e pianti disperati, nessun vestito a lutto, nessuna cerimonia, nessun petardo scoppiato o banconota rituale bruciata per accompagnare i morti alla sepoltura. Non c’erano empatia, dolore, lacrime, sbigottimento o terrore. Decine di milioni di persone scomparvero così, nel silenzio e nell’indifferenza».

In copertina: Manifesto di propaganda a sostegno della Campagna di eliminazione dei quattro flagelli (Cina, fine degli anni Cinquanta).

Questo libro mi ha riportato alla memoria un ricordo della fine degli anni ’60 – primi ‘70 quando fra i gruppi extraparlamentari di Sinistra riscosse un notevole successo l’Unione dei Comunisti Italiani (marxisti-leninisti) più noto come “Servire il popolo” dal nome della rivista del gruppo: erano i maoisti italiani. Inventarono il ‘matrimonio comunista’, erano contro l’uso degli elettrodomestici, i loro figli seguivano corsi scolastici tenuti da “compagni”, il cui principale impegno era l’indottrinamento; le donne nell’organizzazione avevano ruoli pressoché ancillari. “Servire il Popolo” aveva anche un Grande Timoniere: Aldo Brandirali. Idolatrato dai suoi, sugli striscioni portati in piazza c’era scritto: “Marx – Lenin – Stalin – Mao – Brandirali”. Secondo la mesta imitazione della ritualità cinese, un giorno Brandirali ammetterà in un fluviale discorso di avere commesso 271 errori, un po’ troppi per un Grande Timoniere, più roba da Piccolo Mozzo. Fu, di fatto, la fine del gruppo. E Brandirali?
Passò poi alla Dc, in seguito a Forza Italia diventando consigliere comunale a Milano, sindaco Letizia Moratti Chissà, forse avrà pensato: in fondo, Mao e Moratti sempre per emme cominciano. Infine, eccolo assessore allo Sport nella giunta del leghista Albertini.

Sinossi< di “Lapidi”.

Alla fine di aprile del 1959 uno studente della contea cinese di Xishui viene avvisato delle condizioni disperate in cui versa il padre adottivo: lo raggiunge al più presto e lo trova a letto, «gli occhi incavati e spenti», la mano scheletrica che abbozza a stento un cenno di saluto. Ormai incapace di deglutire anche solo una zuppa di riso, morirà tre giorni dopo. In un primo momento Yang Jisheng non ha esitazioni: si tratta di una tremenda, inevitabile sventura. La cieca obbedienza che gli è stata inculcata non lascia spazio a dubbi o critiche, e non lo sfiora neppure l’idea che il governo e il Grande Balzo in avanti propagandato in quegli anni possano essere la causa della sua perdita. La fedeltà al partito si incrinerà con la Rivoluzione culturale, e nei primi anni Novanta, ormai consapevole dell’amnesia storica cui il potere condanna i cinesi, Yang Jisheng comincerà a indagare, a interrogare documenti, a raccogliere testimonianze. Scoprirà che la carestia di cui il padre è rimasto vittima ha ucciso in Cina, tra il 1958 e il 1962, 36 milioni di persone, ridotte a cibarsi di paglia di riso, guano di airone, topi ed erbe selvatiche – quando non di cadaveri. Un eccidio immane la cui responsabilità va attribuita non già a «tre anni di disastri naturali», bensì alla scelta deliberata di sacrificare ai ceti protagonisti dell’«industrializzazione» in corso la popolazione delle aree agricole, sequestrandone la produzione, le case, gli appezzamenti, il bestiame. Il libro che Yang Jisheng va scrivendo diventerà così qualcosa di ben diverso dalla pur accurata ricostruzione di una carneficina: la spietata, minuziosa, memorabile radiografia della criminale irresponsabilità di un sistema teocratico in cui Mao Zedong è l’incarnazione stessa della verità universale».

Per leggere alcune pagine: CLIC!

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Yang Jisheng
Bersagli
Traduzione di Natalia Francesca Riva
836 pagine * 38.00 euro
Adelphi


Lo sport è un gioco?

Si avvicinano le Olimpiadi che si terranno a Parigi (26 luglio - 11 agosto di quest'anno) mai come stavolta in un’atmosfera di tensione dovuto a vari terrorismi e poche volte come in questo 2024 in un clima di divisione fra i popoli, alcuni di essi impegnati addirittura in guerre prossime all’Europa sia in senso geografico oppure politico.
Nonostante ciò, non mancano scritti e discorsi sui media gonfi di retorica inneggianti a presunte fraternità delle genti che, invece, sembrano spesso più propensi a battere record di scannamenti più che di primati sportivi.
Più che mai suona legittimo chiedersi Lo sport è un gioco? come recita una pubblicazione della casa editrice Raffaello Cortina.
L’autore è Philippe Descola
Titolare della cattedra di Antropologia della natura presso il Collège de France dal 2000 al 2019 e direttore del Laboratorio di antropologia sociale (LAS), fondato da Claude Lévi-Strauss, dal 2001 al 2013. Nel 2012 ha ricevuto la medaglia d’oro del CNRS (Centre national de la recherche scientifique).
Nelle edizioni Raffaello Cortina: Oltre natura e cultura https://www.raffaellocortina.it/scheda-libro/philippe-descola/oltre-natura-e-cultura-9788832852899-3434.html (2021).

Un ritratto delle origini e sviluppo del pensiero di Descola lo troviamo qui: “La tensione esistente fra etnografia e teoria (rilevante è il confronto con lo strutturalismo e il marxismo) confluisce nella volontà dell’autore di fare antropologia e di conseguenza sondare la possibilità di rintracciare generalizzazioni e alcune invarianti culturali relative ai sistemi di relazioni che coinvolgono umani e non umani in una prospettiva di superamento del dualismo fra natura e cultura. Questo percorso intellettuale porterà Descola a redigere e pubblicare il suo capolavoro, Par-delà nature et culture (2005) riproposto dall’editore Raffaello Cortina (Oltre natura e cultura). La prospettiva attraverso la quale l’antropologo francese riflette sullo sport è strettamente connessa a quanto contenuto nel volume del 2005, diventato ormai un classico dell’antropologia”.

Scrive Stefano Allovio nella sua lucidissima prefazione: “Lo sport indagato nella sua ampia accezione etnografica non può che ridefinire la propria essenza ed esistenza anche in relazione a ciò che nelle società tradizionali ricade all’interno della categoria di “gioco”. Qui, il confronto fra sport e gioco pare fornire un terreno di riflessione dove risulta complicato affermare con chiarezza cosa sia l’uno e l’altro. Descola non si sottrae a riflettere sul problema e come molti suoi colleghi sottolinea da un lato l’universalità delle pratiche ludiche e dall’altro la contrapposizione fra il gioco nelle società tradizionali, caratterizzato da maggiore cooperazione fra i partecipanti, e lo sport moderno, caratterizzato da maggiore competizione (…) Lo sport, dal canto suo, pur conservando molte caratteristiche del gioco (lo sport risulta un’attività di gioco particolare) ha regole codificate e prevede competizioni aventi uno specifico obiettivo; la modernità prodotta dall’Occidente sarebbe la matrice dalla quale scaturisce l’idea di sport, appunto, “moderno”. Esso sembra predisposto a ospitare una idea di gioco nel quale si prevede il trionfo di un partecipante sull’altro. Questa idea di gioco non è precisamente propria ed esclusiva al mondo moderno, ‘ma è stata, nel mondo moderno, completamente esacerbata rispetto a delle concezioni di gioco che privilegiano l’attività ludica al risultato’ ”.

Dalla presentazione editoriale.

«Prendiamo il calcio: per gli achuar dell’Amazzonia ecuadoriana, l’obiettivo non è che una squadra trionfi sull’altra. Come per molte altre società non moderne, ciò che è importante per loro è il gioco in sé, prendere il pallone e segnare facendo in modo che alla fine della partita non ci siano diseguaglianze. In questo testo Philippe Descola mette a confronto il nostro rapporto con lo sport e il gioco con quello delle società premoderne. L’Occidente ha imposto al resto del mondo il suo modello di sport competitivo, che porta con sé diseguaglianze, individualismo e sentimenti nazionali esacerbati. Descola rilegge il concetto a partire dalle sue riflessioni sul dualismo natura-cultura, arrivando a toccare la questione dell’ibridazione tra l’uomo e la macchina».

Per leggere un estratto: CLIC .

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Philippe Descola
Lo sport è un gioco?
Prefazione di Stefano Allovio
112 Pagine * 11.00 euro
E-book (Epub): 9.55 euro
Edizioni Raffaello Cortina


Scatti d'autore


A Torino lavora (ma lavora anche da viaggiatore instancabile per le terre del mondo) il fotografo Claudio Cravero.
Per conoscere il suo stile e il suo modo di accostarsi alla fotografia, tempo fa lo ospitai su questo sito nella sezione Nadir dove potete leggere sue dichiarazioni. E vedere alcune sue opere.
In anni più recenti si è dedicato specialmente al ritratto e nel suo Studio è possibile farsi ritrarre dal suo obiettivo.

A lui (in foto) ho rivolto alcune domande.

Il ritratto agito dalla fotografia per rispecchiare l’interiorità di un volto, quali vantaggi espressivi offre rispetto al ritratto in pittura, scultura, disegno?

Il ritratto fotografico lascia meno spazio alla libera interpretazione soggettiva dell’autore, rispetto alle altre forme di rappresentazione Il ritratto fotografico è più di altri energia in movimento.

La fotografia di un volto rivela. Ma sa anche mentire?

Può rivelare perfino le più segrete sfumature, le più profonde pieghe dell’intimo umano, ma può anche mentire molto bene.

Nel ritratto di un volto quanti scatti mediamente impieghi prima di ritenerti soddisfatto del risultato?

Non ho una media di scatti…
Ultimamente ho realizzato una trentina di ritratti in un pomeriggio per un progetto che documenta un paese e ho fatto da 3 a 6/7 scatti per soggetto perché avevo poco tempo a disposizione, ma in studio, con un paio d’ore di lavoro, posso farne anche 200.

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Claudio Cravero
Via Vanchiglia, 16 * Torino | mob. +39 348 310 49 91
contatti@claudiocravero.com | www.claudiocravero.com
www.instagram.com/claudio.cravero/?hl=it
www.facebook.com/claudio.cravero.71?_rdc=2&_rdr


Musei possibili


ll termine museo deriva dal greco antico mouseion «luogo sacro alle Muse», figlie di Zeus e protettrici delle arti e delle scienze.
Il termine viene usato per la prima volta per definire il Museo di Alessandria d'Egitto.
Da allora ad oggi il Museo ha attraversato un’infinità di epoche che di volta in volta ne hanno caratterizzato la funzione e l’espressione.
Ai nostri giorni l'International Council of Museums lo definisce «un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, che effettua ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio materiale e immateriale. Aperti al pubblico, accessibili e inclusivi, i musei promuovono la diversità e la sostenibilità. Operano e comunicano eticamente e professionalmente e con la partecipazione delle comunità, offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di conoscenze».
Non c’è che dire, definizione corretta, ma dietro quelle indiscutibili parole si cela un universo di problemi che coinvolgono, scienza, arte, correnti estetiche, prospettive ideologiche, derive sociologiche, influenza dei mercati, . politiche di gestione.
Per dirne una soltanto ecco quanto scrive Maria Teresa Feraboli: “Anticipando il famoso detto di Andy Warhol, secondo cui tutti i musei sarebbero diventati grandi magazzini e tutti i grandi magazzini musei, nel 1936 Salvador Dalí contribuisce all’avvicinamento dei due mondi curando l’allestimento delle vetrine del Department Store Bonwit Teller a New York In concomitanza con la mostra del Moma (Museum of Modern Art), intitolata Fantastic Art, Dada, Surrealism, crea un display che catalizza gli sguardi, quasi un invito a passare, senza soluzione di continuità, dall’ammirazione delle merci all’ammirazione dell’arte. Pochi, infatti, sono gli oggetti in vendita (abito da sera, gioielli, borsetta, giacca, cucchiaini da tè e bicchieri) e la loro disposizione non privilegia l’esposizione dei prodotti, quanto la composizione d’insieme che prende spunto da alcuni lavori di Dalí, il quadro Three Surrealist Women (1936) e l’oggetto Lobster Thelephone (1936)”.

Il brano precedente l’ho tratto da Musei possibili Storie, sfide, sperimentazioni pubblicato dalla casa editrice Carocci recentemente uscito per l’eccellente cura di Fulvio Irace.
Irace è professore emerito di Storia dell’architettura e del design al Politecnico di Milano e insegna all’Università IULM di Milano. È tra i fondatori di AAA-Italia (Associazione nazionale archivi di architettura), di MuseoCity Milano (2016) e appartiene al comitato scientifico della Fondazione Museo di Brera. È curatore di mostre in Italia e all’estero. Tra i suoi lavori nel campo della critica, dell’architettura e del design contemporaneo: Codice Mendini (Electa, 2016); Gio Ponti. Amare l’architettura (MAXXI-Forma, 2019); Milano moderna. Architettura, arte e città (24 Ore Cultura, 2021).

“Musei possibili” rappresenta oggi quanto di più completo esista in fatto di storie, sfide, sperimentazioni – come recita il sottotitolo – che riguardino le istituzioni museali pubbliche e private. Dal museo deposito al museo interattivo offerto dalle nuove tecnologie viene investigato il mondo di segni e linguaggio, e la loro evoluzione, da quelle mura contenute e anche scavalcate dalle nuove ottiche tecnologiche.

Dalla presentazione editoriale.

«Anche se a molti appaiono ancora come depositi immobili di un passato da ammirare e conservare per le generazioni future, i musei in realtà non sono mai stati entità statiche: la loro storia, infatti, ci racconta di costanti trasformazioni, al punto che risulta difficile dire con esattezza che cos’è un museo oggi. Lo stesso International Council of Museums ha dovuto più volte aggiornarne la definizione, estendendola sino a includere i domini dell’immateriale e dell’intangibile e allargandone i compiti dalla sola conservazione alla comunicazione e addirittura al diletto e al piacere. Fra tante incertezze, emerge con chiarezza che i nuovi, possibili musei devono essere pensati e costruiti per generare condivisione e senso di comunità. Devono produrre nuovi contenuti e l’utilizzo delle più avanzate tecnologie digitali non deve essere considerato una minaccia ma un ausilio per renderli maggiormente inclusivi senza far perdere densità all’esperienza estetica e storica. Il volume raccoglie le riflessioni di curatori, ricercatori, architetti e storici dell’arte che si sono confrontati con l’attualità del museo e con le questioni poste dai visitatori che oggi aspirano al ruolo di attori».

Gli autori dei saggi presenti nel volume nell’ordine di apparizione nelle pagine sono: Maria Teresa Feraboli - Orietta Lanzarini - Ico Migliore - Anna Chiara Cimoli - Anna Casalino - Maria Elena Colombo - Susanne Franco - James Bradburne - Cristiana Collu -
Elisabetta Farioli - Christine Macel
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Musei possibili
A cura di Fulvio Irace
232 pagine * 24.00 euro
51 immagini in b/n
Carocci


Il teatro di Pessoa


“Il poeta è un fingitore
Finge così completamente
Che arriva a fingere che è dolore
Il dolore che davvero sente”.

Questi versi appartengono a Fernando Pessoa che il 30 novembre 1935 a Lisbona, dov’era nato, moriva all’età di 47 anni; fegato a pezzi dopo una vita trascorsa tra vini portoghesi e non.
Non immaginatevi, però, un tipo borderline; teneva per sé una particolare compostezza, conduceva una vita grigia nella quale batteva un cuore infernale.
Nella foto, 1939, l’obiettivo l’ha colto Em flagrante delitro, come scrisse sul retro dell’istantanea dedicando l’immagine alla fidanzata Ophélia Queiroz.
È uno dei geni del secolo scorso – reso noto in Italia dal suo infaticabile esegeta Antonio Tabucchi (in questo video racconta il suo incontro con il grande portoghese) – Pessoa: protagonista di una singolare avventura di scrittura moltiplicando se stesso in una serie di scrittori immaginari, eteronimi, creando così una mitopea colossale scritta da una sola infinita mano.
Quella mano una volta scrisse: “Che si sia ombra o luce, siamo sempre la stessa notte”.
Si riportano come sue ultime parole: "Datemi i miei occhiali".

La casa editrice Quodlibet ha pubblicato ora di lui Teatro statico.
Di Pessoa nel catalogo Quodlibet già figurano “Il ritorno degli dèi. Opere di António Mora” (2005); “Pagine di estetica. Il gioco delle facoltà critiche in arte e in letteratura (2006)”; “Teoria dell’eteronimia (2020)”, “Sul fascismo, la dittatura militare e Salazar” (2022).
A quest’ultimo titolo ho dedicato uno special teso a dissolvere una nuvola nerastra in cui malaccorti cronisti e superficiali critici avevano avvolto la figura di Pessoa quasi quale un filofascista. “Sul fascismo” dimostra ampiamente il contrario
Chi è interessato può leggere QUI.
Circa il “Teatro statico”, si riuniscono in questo volume le traduzioni italiane dei 14 drammi statici di Pessoa finora rinvenuti, composti tra il 1913 e il 1934, dei quali solo “Il marinaio” venne pubblicato in vita dall’autore (1915).

«Chiamo teatro statico quello in cui l’intreccio drammatico non costituisce azione – cioè, in cui le figure non soltanto non agiscono, poiché non si muovono né parlano di muoversi, ma non possiedono nemmeno i sensi necessari per produrre un’azione; in cui non c’è conflitto, né perfetto intreccio. Si dirà che questo non è teatro. Credo che lo sia, perché credo che il teatro trascenda il teatro puramente dinamico e che l’essenziale del teatro sia, non l’azione, né la progressione e la continuità dell’azione, ma, in un’accezione più ampia, la rivelazione delle anime attraverso le parole scambiate o la creazione di situazioni».

Dal saggio introduttivo di Andrea Ragusa al volume.

“L’opera drammatica di Pessoa dialoga, come spesso viene indicato, con il contenuto teorico di Villiers de L’Isle-Adam, con alcuni testi di Maurice Maeterlinck (in particolare, L’Intruse e Les Aveugles) e con il «teatro dell’anima» di Evreinov, cui dedica anche la pièce Os Estrangeiros (Gli stranieri). Nondimeno, le figure cui egli dà voce riflettono l’assenza, non soltanto dell’azione, ma delle stesse personæ drammatiche, declinate in ombre monologanti: le evanescenti vegliatrici, che si guardano non-esistere, o il marinaio stesso, che tenta di reinventare la patria dimenticata, sono inscritti in un processo in cui la finzione si identifica con il sogno in senso “attivo”, come accadeva all’Amleto perduto «a sognare sul suo dramma», nella riscrittura di Laforgue.
Con il dramma statico si intende esaltare su un piano statico (estático) la centralità dell’estatico (extático), e, di conseguenza, favorire la manifestazione del sogno e della pura parola, a discapito del teatro dinamico, che diviene del tutto dispensabile ai fini dell’esaltazione di una realtà soltanto sognata”

Dalla presentazione editoriale.

«Il meticoloso lavoro di scavo svolto nell’archivio di Pessoa, permettono a questi testi di restituire un altro e fondamentale versante della sua magmatica attività.
La natura di Pessoa fu intimamente drammaturgica, anche quando questo carattere si manifestò mediante la spersonalizzazione poetica che diede origine a più di un centinaio di «eteronimi», autori fittizi radicalmente diversi per personalità e visione del mondo. Il suo teatro sprovvisto di azione, in cui l’enigma della condizione umana si traduce in spettacolo dell’inconscio, si proietta già verso esiti che saranno sperimentati con maggiore continuità dalle avanguardie del XX secolo.
L’edizione è arricchita da un’appendice che raccoglie frammenti aggiuntivi riferibili alle pièce più organiche, oltre ad alcune lettere e agli appunti in cui Pessoa formula la sua idea di teatro ».

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Per i redattori della carta stampata, radio-tv, web
Ufficio Stampa: Valentina Parlato, valentinaparlato@quodlibet.it

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Fernando Pessoa
Teatro statico
Edizione originale a cura di
Filipa de Freitas e Patricio Ferrari
Edizione italiana a cura di Andrea Ragusa
256 pagine * 20.00 euro
Quodlibet


Pessoa a Firenze

A Firenze, al Teatro della Pergola, in prima mondiale, da oggi fino a domenica 12 maggio è in scena Since I've been me spettacolo *da/ su/ per* Fernando Pessoa.
La regìa è del famoso Robert Wilson.

Dal sito del Teatro della Pergola

«Considerato che il 2024 è l’anno del Portogallo, che festeggia mezzo secolo dalla Rivoluzione dei Garofani che riportò la democrazia nel Paese dopo anni di dittatura, ecco che pensare a Fernando Pessoa diventa quasi naturale: l’enigmatico poeta dai molto eteronimi, sfuggente sagoma di quella magica temperie culturale che fu il periodo tra le due guerre.

Robert Wilson ha accolto con entusiasmo l’idea di uno spettacolo dedicato a Pessoa lanciata dal Teatro della Pergola di Firenze e dal Théâtre de la Ville di Parigi, e la Pergola ha già ospitato a gennaio la prima fase delle prove di Pessoa. Since I've been me, il primo momento di corale creazione dello spettacolo che debutterà in prima mondiale a Firenze. La frase “Since I've been me” si ispira a un frammento de Il libro dell’Inquietudine. Fa parte del titolo e verrà quindi mantenuta in inglese, ma per dare un senso della traduzione possiamo dire che si avvicina a “Da quando sono io”».

Nel nome del progetto sull’Attrice e l’Attore Europei lo spettacolo è in lingua inglese, portoghese, francese e italiana, idiomi rispecchiati anche dalle diverse provenienze del cast: è portoghese Maria de Medeiros, volto conosciutissimo di cinema e teatro; brasiliano è Rodrigo Ferreira, franco-brasiliana Janaína Suaudeau; francese di radici africane Aline Belibi; italiana (e proveniente dalla Scuola ‘Orazio Costa’ della Pergola) Sofia Menci, italiano di lunga residenza francese Gianfranco Poddighe, italo-albanese Klaus Martini.

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Per i redattori della carta stampata, radio-tv, web
Ufficio Stampa: Matteo Brighenti, stampa@teatrodellatoscana.it


Un magnifico ritratto

Aimez-vous Herzog?
Spericolato, sfrenato, eccessivo, estremo, sia nella vita professionale sia in quella privata, il regista tedesco segna un capitolo imprescindibile nella storia del cinema e non solo dei più recenti anni.
Si può leggere un intervento – splendido come al solito – di Maria Teresa Carbone sul webmagazine “Antinomie” cliccando QUI.


Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine (1)

Roma, 24 marzo 1944, strage delle Fosse Ardeatine, 335 martiri.

“Ricordate! Chi per la Patria muor vissuto è assai!
Ebbene, se per la Patria io dovessi versare il mio sangue, se essa mi
chiedesse il supremo olocausto, non indietreggerei! Non indietreggerò.
Sono Italiano e mi vanto di appartenere alla Nazione
più bella del mondo, a questa bella Italia cosí martoriata!
Se non dobbiamo più rivederci ricordate che avete avuto un
figlio che ha dato sorridendo la sua vita per la Patria guardando
in viso i carnefici!”

Biglietto scritto a matita ritrovato in tasca a una delle vittime.

Queste righe sono poste a epigrafe d’un libro di monumentale importanza, di assoluta necessità, destinato ad essere qualcosa di più, molto di più, di un ever green, perché testo dal quale sarà imprescindibile passare per conoscere un grande quanto grave passaggio della Storia italiana e dell’antifascismo di cui si tenta in questi giorni di sminuirne il valore civile.
Pubblicato dalla casa editrice Einaudi è intitolato Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine Le storie delle 335 vittime dell'eccidio simbolo della Resistenza
Gli autori sono Mario Avagliano e Marco Palmieri

Avagliano, giornalista professionista e studioso di Storia contemporanea, è membro dell'Istituto Romano per la Storia d'Italia dal Fascismo alla Resistenza e della Sissco e dirige il Centro Studi della Resistenza dell'Anpi di Roma-Lazio. Tra le sue opere: Roma alla macchia. Personaggi e vicende della Resistenza (Cava de' Tirreni 1997); «Muoio innocente». Lettere di caduti della Resistenza a Roma (in collaborazione con Gabriele Le Moli, Milano 1999). Per Einaudi ha curato il volume Generazione ribelle. Diari e lettere dal 1943 al 1945 (2006) e ha pubblicato, con Marco Palmieri, Gli internati militari italiani. Diari e lettere dai lager nazisti 1943-1945 (2009), Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia (2010) e Voci dal lager. Diari e lettere di deportati politici 1943-1945 (2012).

Palmieri, giornalista pubblicista e studioso di Storia contemporanea, ha lavorato per diverse testate; è membro del Centro Studi della Resistenza dell'Anpi di Roma-Lazio e ha pubblicato numerosi articoli e saggi sulla deportazione, l'internamento e le vicende militari italiane nella Seconda guerra mondiale. Per Einaudi ha pubblicato, con Mario Avagliano, Gli internati militari italiani. Diari e lettere dai lager nazisti 1943-1945 (2009), Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia (2010), Voci dal lager. Diari e lettere di deportati politici 1943-1945 (2012) e Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine. Le storie delle 335 vittime dell'eccidio simbolo della Resistenza (2024)

Di questi due autori Cosmotaxi si è già occupato in occasione di un loro precedente lavoro I militari italiani nei lager nazisti.

Le fosse Ardeatine sono uno dei momenti più riusciti della propaganda fascista fin dal dopoguerra a oggi sostenendo che la strage fu causata dal mancato costituirsi dei gappisti autori dell’attentato di via Rasella. Bugia colossale. Un manifesto dell’epoca recitava “L’ordine è già stato eseguito” dando notizia della già avvenuta esecuzione di “comunisti badogliani”. Anche volendolo, Capponi, Bentivegna e altri partigiani non avrebbero avuto neppure il tempo per costituirsi. Altra inesattezza – ripetuta anche appena giorni fa da La Russa, presidente del Senato (seconda carica della Repubblica) – vorrebbe il plotone tedesco ucciso in via Rasella solo “una banda di musicisti”.
No, appartenevano alla polizia germanica.

Avagliano e Palmieri ricostruiscono le biografie dei 335 martiri non con poche righe ma n modo dettagliate con diffuse notizie sulle professioni e sui mestieri svolti, sull’appartenenza politica di ciascuno, delle amicizie, e talvolta dei nomi di chi li ha traditi.

Dalla presentazione editoriale di Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine.

«Roma, 24 marzo 1944: in una cava sulla via Ardeatina, i tedeschi uccidono 335 uomini sparando a ognuno un colpo alla testa. Sono prigionieri politici e partigiani di tutte le forze antifasciste, civili e militari, molti ebrei, alcuni detenuti comuni e ignari cittadini estranei alla Resistenza, sacrificati in proporzione – che poi si rivelerà sbagliata per eccesso – di dieci a uno in seguito a un attacco partigiano in via Rasella, costato la vita a 33 militari del Reich. È il piú grande massacro compiuto dai nazisti in un’area metropolitana e segnerà profondamente la storia e la memoria italiana del dopoguerra. Dell’eccidio delle Fosse Ardeatine molto si sa. Poco invece si conosce delle vicende individuali delle vittime, alle quali – tranne poche eccezioni – fino ad ora nelle cerimonie e nelle pubblicazioni era dedicata solo una riga con le generalità in un lungo elenco. Questo libro per la prima volta racconta la loro storia, una per una».

Non è molto noto, ma esiste un brano musicale del 1968 dedicato a quella tragedia, è del compositore William Schuman (1910-1992): Sinfonia No.9, Le fosse ardeatine.

Segue ora un incontro con i due autori.


Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine (2)

A Mario Avagliano e Marco Palmieri ho rivolto alcune domande.
I due autori (in foto) rispondono con una voce sola.

Quanto tempo vi è servito dalle prime ricerche fino alla redazione del volume per rintracciare tutto quell’ingente materiale biografico?

L’idea di questa ricerca nasce alcuni anni fa, sulla base della considerazione che a ottant’anni di distanza della gran parte delle vittime delle fosse ardeatine si era persa traccia e memoria della storia personale e individuale. C’era quindi da riscoprire e tutelare un patrimonio di informazioni e notizie che rischiavano di andare irrimediabilmente e definitivamente perdute. Negli anni scorsi, quindi, abbiamo cominciato a raccogliere informazioni e notizie dalle fonti più varie, anche nel corso delle ricerche che hanno portato alle nostre altre pubblicazioni di questi anni sulle vicende di quel terribile frangente storico. Nel corso dell’ultimo anno, infine, avvertendo l’urgenza di riportare alla luce le vicende personali dei martiri delle Ardeatine, anche ai fini di una maggiore e più diffusa comprensione di quella drammatica vicenda e del contesto storico in cui si inseriva, abbiamo lavorato a tempo pieno per arrivare a questa spoon river italiana, come giustamente è stata definita da Einaudi che ha condiviso con noi questo progetto.

Come vi siete mossi? A quali fonti vi siete riferiti?

La base di partenza è stata la raccolta di informazioni fatta dal professor Attilio Ascarelli al momento dell'identificazione delle salme e le schede compilate dai familiari dei martiri. Per molti di essi c'erano solo nomi e cognomi e poche altre scarne informazioni. Per ricostruire le loro biografie abbiamo scandagliato archivi familiari, comunali, degli istituti storici, del museo di Via Tasso, le carte della polizia politica, i fascicoli del casellario politico centrale per gli antifascisti di vecchia data, il fondo per il riconoscimento della qualifica di partigiani, gli archivi delle formazioni partigiane e dei partiti politici antifascisti e della comunità ebraica. Alcuni di loro hanno lasciato anche diari, lettere e biglietti clandestini dalle carceri naziste e fasciste. Infine, abbiamo utilizzato le testimonianze dei parenti, gli atti del processo Kappler e di altri processi a spie e collaborazionisti fascisti, i verbali di interrogatori.

Dalle storie individuali quale ritratto della società italiana di quel tempo emerge?

Come scriviamo nell’introduzione del libro, dalla tale ricerca emerge uno spaccato altamente rappresentativo dell'intera storia italiana di quel tempo, in uno dei suoi snodi più drammatici e cruciali, tra fascismo, occupazione nazista, Resistenza e Liberazione. Le vittime sono italiani provenienti oppure originari da ogni parte della penisola, dalla Lombardia alla Sicilia, più alcuni stranieri (un belga, un francese, un libico, un turco, un ungherese, tre ucraini e tre tedeschi). Le vittime erano militari e civili e appartenevano a tutti i ceti sociali, dagli aristocratici ai poveracci venuti in città per sbarcare il lunario e sopravvivere alla miseria. Erano impiegati, commessi, commercianti, avvocati, professori, studenti, militari, venditori ambulanti, artigiani, contadini, pastori, operai. Erano di ogni fascia d’età, dagli anziani ai giovanissimi. Di ogni livello d’istruzione, dagli analfabeti ai grandi intellettuali. Erano persone oneste o colpevoli di reati comuni, che stavano scontando la loro pena in carcere. Quanto al credo religioso, vi erano cattolici (tra cui un sacerdote, don Pietro Pappagallo, che ispirò uno dei personaggi di Roma città aperta di Roberto Rossellini), ebrei e atei. I militari appartenevano alle differenti armi – diversi i carabinieri, tra cui gli ufficiali che avevano arrestato Mussolini il 25 luglio – ed erano di diversi gradi, dagli alti ufficiali (come Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, capo del fronte militare clandestino) ai soldati semplici. Tra i “politici”, infine, erano presenti esponenti di tutte le forze antifasciste e della Resistenza, e perfino un ex sottosegretario dei governi fascisti, Aldo Finzi. Dentro la storia delle 335 vittime, quindi, c’è tutta la storia d’Italia – sociale, politica, economica, culturale – e della Resistenza.

Gli assassinati sono tutti uomini, ma avete dedicato spazio anche alle loro donne. Quale ruolo svolsero all’epoca della strage?

Le donne hanno un ruolo importante in questa storia. Sono proprio loro, infatti, che nella Roma ancora occupata dai nazisti dopo aver appreso della rappresaglia con il famoso annuncio “l’ordine è già stato eseguito”, continuano ad andare alle porte di via Tasso e Regina Coeli pretendendo informazioni sui propri cari di cui non hanno più notizie. Così come sono le donne che, quando si sparge la voce del ritrovamento del luogo della strage, si occupano del riconoscimento dei corpi dei propri mariti, figli, fratelli e si battono affinché sia preservata la loro memoria e quella del loro sacrificio. C’è anche una trecentotrentaseisima vittima, che è una donna. Si tratta di una contadina di Gaeta, Fedele Rasa, sfollata, che si reca nella zona del massacro in corso in cerca di qualcosa da mangiare, non sente o non comprende l’ordine di allontanarsi dei soldati tedesche che la feriscono a morte con un colpo d’arma da fuoco.

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Mario Avagliano – Marco Palmieri
Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine
pagine XL – 576 * euro 24.00
Einaudi


Bella Ciao


Le origini di quel canto vedono gli storici non tutti d’accordo.
Vi hanno speso studi: da Cesare Bermani a Emilio Jona, da Sergio Liberovici a Lionello Gennero da Michele Straniero a Marcello Flores.
Parlare su “Bella ciao” forse obbliga a ricordare anche “Fischia il vento”, altra bella e severa canzone partigiana che, pur cantata da molte formazioni era preferita da parte comunista, mentre “Bella ciao” era più giovale e anche a questo deve la sua fortuna diventando oggi l’inno dell’internazionale radicalità giovanile e di tutti i ribelli del mondo contro il potere.
Nella storia di questo brano, va dato primario merito all’antropologo Alberto Maria Cirese per essersene interessato e aver notato come fosse un riadattamento (con altre parole) della canzone epico-lirica che Costantino Nigra (1828 – 1907) chiamò “Fior di tomba”, canto diffuso in tutta Italia, entrato stabilmente nel repertorio militare sin dalla guerra del 1915-1918. Sta di fatto che oggi quella canzone, da tempi lontani fino a piazze di molti paesi risuona forte e perfino nella triste America di Trump quelle note e quei versi diventarono un canto d’opposizione e per la libertà.
Tantissimi gli artisti che l’hanno incisa, eccone un elencofolto sì, ma probabilmente non esaustivo.

La casa editrice il Saggiatore ha pubblicato un libro molto interessante dedicato a quel brano: Bella ciao Una canzone, uno spettacolo, un disco.
L’autore è Jacopo Tomatis.
Nato a Mondovì nel 1984, è musicologo, giornalista, musicista.
Insegna Popular Music ed Etnomusicologia all’Università di Torino.
Per il Saggiatore ha pubblicato “Storia culturale della canzone italiana” (2019) e curato il libro di interviste di Lucio Dalla “E ricomincia il canto” (2021).

Originale il Prologo del libro: una fotografia in b/n.
Scattata ad Hanoi nel dicembre 1966.
Ritrae, Enrico Berlinguer, in rappresentanza del Partito comunista italiano, mentre offre il discp “Bella ciao” a Nguyễn Sinh Cung, meglio noto come Hồ Chí Minh, presidente della Repubblica Democratica del Vietnam.

Dalla presentazione editoriale

«Una canzone, uno spettacolo, un disco
Bella ciao è il racconto di un pezzo di storia della musica italiana rimasto volutamente lontano dalle classifiche e dai circuiti ufficiali, ma fondamentale per la costruzione della nostra identità nazionale e politica. Un libro che ci ricorda le appassionanti (e animate) origini di una canzone divenuta inno della lotta per la libertà in tutto il mondo.

«Bella ciao» è una e trina. Nell’immaginario collettivo, è il brano simbolo della Resistenza partigiana. I più però dimenticano che è anche il nome di uno spettacolo di «canzoni popolari italiane» che tanto fece scalpore al Festival dei Due Mondi di Spoleto del 1964, e del 33 giri a firma del Nuovo Canzoniere Italiano che quello spettacolo fissò su disco, entrambi con un ruolo cruciale nella diffusione della canzone. In queste pagine Jacopo Tomatis attraversa le vicende del progetto culturale che ruota intorno a «Bella ciao» nella sua triplice forma e ne ricostruisce la fortuna in anni di profondi mutamenti sociali: dalle prime apparizioni durante la Seconda guerra mondiale alla prima versione registrata – quella di Yves Montand –, fino al successo discografico e alla sua trasformazione in simbolo dell’incontro fra politica e musica.

Quella di Tomatis è l’esplorazione di un brano iconico; un’indagine capace di stare in equilibrio tra fatti e leggende, revival e interpretazioni errate, che riesce a smantellare la mitologia di una canzone senza sminuirne il fascino e l’importanza. Perché, sicuramente, «Bella ciao» è stata, ed è ancora, un oggetto divisivo: «Cantarla – o non cantarla – rappresenta una scelta ben precisa».

Concludo con l’ascolto di quel brano famoso.
Ma una piccola sorpresa l’ho riservata ai lettori di queste righe: un video.
Una versione jazzistica.
Al clarinetto Woody Allen con la sua New Orleans Jazz Band.
Buon ascolto

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Jacopo Tomatis
Bella ciao
240 pagine * 18.00 euro
Il Saggiatore



La memoria e la lotta

Titolo di un libro di maurizio Maggiani uscito in questi giorni di sfacciato revisionismo.

La Storia esiste e si tramanda finché è raccontata, e nessuno sa raccontarla come Maurizio Maggiani, che fra le pagine del suo ultimo libro si fa testimone di personaggi e avvenimenti ormai quasi dimenticati: dal coraggio della “principessa con il fucile in mano” immortalata all’ingresso della casa museo di Giuseppe Mazzini a Genova, all’accorata forza dell’appello del Presidente della Repubblica Sandro Pertini ai giovani.

Il video è della giovanissima (2002) Anna Balducci


Storie di errori memorabili


“Sto lavorando duro per preparare il mio prossimo errore”, diceva Einstein.
E Warhol: “Chi mai ha commesso un errore, nulla di nuovo ha mai sperimentato”.
Insomma l’errore può contenere opportunità, risorse.
Ne sa qualcosa Cristoforo Colombo.
E se vogliamo verità e saggezza e decidessimo di entrare nella terra dei filosofi per saperne di più sull’Errore? Se consultiamo un Dizionario di filosofia ci verrà risposto che “A differenza della menzogna e del sofisma, l’errore rappresenta un fallimento inconsapevole del pensiero nel raggiungimento della verità, e può attuarsi sia nel campo logico-gnoseologico sia in quello morale”.
Ma l’errore è sempre dannoso?
Parola al filosofo Giulio Giorello: “L’errore ha perduto il suo valore conoscitivo, mandando in soffitta uno dei modi di dire più comuni che ci ha accompagnato per generazioni, l’altrimenti saggio “sbagliando s’impara”. L’errore ci sgomenta, non può riguardarci: soprattutto in ambito medico tendiamo a considerarlo troppo spesso inaccettabile e scandaloso. Ma la nostra storia genetica ci ricorda come le specie sopravvivano adattandosi all’ambiente a partire da errori “casuali”, talvolta fatali ma spesso utili e risolutivi. Nel mondo al tempo dell’Artificial Intelligence, l’anomalia inevitabile dell’imperfezione è ancora necessaria per avanzare nel cammino della conoscenza.

La casa editrice Laterza ha pubblicato un libro che indaga sull’errore e lo fa in campo scientifico dove gli errori possono costare molto caro.
Titolo: Storie di errori memorabili.
L’autore è Piero Martin.
L’editore informa: professore ordinario di Fisica sperimentale all’Università di Padova, attualmente distaccato presso il Centro Interdisciplinare “B. Segre” dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Studia la fusione quale sorgente di energia. Fellow dell’American Physical Society, è stato responsabile scientifico di grandi progetti internazionali e oggi coordina le attività di fisica di DTT, il nuovo grande esperimento di fusione italiano. Scrive per “La Stampa” e “lavoce.info” e ha vinto il Premio Fiuggi Scienza. Ha pubblicato L’era dell’atomo (con A. Viola, Il Mulino 2014), Zerologia (con C. Bartocci e A. Tagliapietra, Il Mulino 2016) e Trash. Tutto quello che dovreste sapere sui rifiuti (con A. Viola, Codice edizioni 2018, finalista al Premio Galileo 2018 e vincitore del Premio nazionale di divulgazione scientifica, sezione Scienze).
Per Laterza: “Le 7 misure del mondo” (2021), tradotto in otto lingue e finalista al Premio Galileo 2022).

C’è del genio nell’errore questo l’incipit di “Storie di errori memorabili”.
Facciamo tesoro degli errori questo l’explicit.
Fra questi due poli verbali si muove l’indagine di Martin con scrittura veloce e comprensibile anche a chi non fa parte del mondo scientifico. Inoltre, illustra e commenta errori famosi con un sorriso dietro le righe che ancor più rendono piacevole la lettura.

A questo punto, visti i tempi, è necessaria una precisazione, affinché complottisti, no vax,
terrapiattisti, esoteristi e monoteisti non approfittino degli errori illustrati in questo libro per gettare discredito sulle scienze. La risposta da dare loro è semplice: gli scienziati ammettono i loro errori (talvolta perfino proficui) quelli che ho nominati prima mai li ammettono nonostante le smentite che piovono loro addosso ripetutamente da secoli.

Dalla presentazione editoriale

«Non si tollera, non si riconosce, non si perdona, ma non si può evitare. È l’errore, prezioso compagno di quel meraviglioso errare che è la vita. Un viaggio sorprendente tra memorabili incidenti di percorso della scienza: sbagliare non solo è umano ma spesso è anche molto utile!
Spesso si considera la scienza il regno della certezza e della verità. Invece, il dubbio e l’errore sono fondamentali per il progresso del sapere in ogni settore. E, come accade nella vita di ogni giorno, anche nella scienza l’errore si presenta sotto molteplici forme: c’è l’errore che è motore di nuove conoscenze, ma anche quello frutto dell’ideologia o della fretta. C’è l’errore riconosciuto e quindi fecondo, ma anche quello testardo.
In questo libro scopriremo storie affascinanti di chimica, biologia, medicina e soprattutto di fisica, dal punto di vista di chi sbaglia. Incontreremo scienziati come Fermi, Einstein e Pauling e studiosi quasi ignoti. Scoprire che anche i grandi della scienza hanno sbagliato sarà una iniezione di ottimismo. Viviamo in un mondo che con l’errore ha un rapporto difficile. Oggi più che mai è importante rivalutarlo: lunga vita all’errore!».

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Piero Martin
Storie di errori memorabili
200 pagine * 18.00 euro
Ebook euro 11.99
Laterza


Pahsi Lin

Il nome di Taiwan risuona da tempo solo per le tensioni che ha con la Cina per via di una travagliata storia che ha origine alla metà del secolo scorso.
Ma aldilà del conflitto diplomatico, qual è l’opera d’arte più ammirata a Taiwan?
Con tanti visitatori da fare invidia all’europeo Louvre?
È un cavolo.
Ma aldilà di questo capolavoro che raffigura magistralmente quel vegetale, l’arte taiwanese ha rappresentanti di valore internazionale.
Letteratura? Segnalo qui solo libri disponibili in italiano.
Musica e musicisti… non pochi.
Teatro? Non mancano autori, attori, registi.
E il cinema? E i cineasti taiwanesi? Cliccate sul loro schermo.
QUI Giulia Giaume ci accompagna in un veloce giro fra artisti taiwanesi.
Quanto a musei, ce ne sono tanti da visitare, date uno sguardo qua.
E italiani noti a Taiwan? Molto apprezzati i nostri ceramisti, tra i letterati il più conosciuto è Calvino, tra i cineasti Fellini, nelle arti visive (aldilà dei grandi personaggi storici del passato) ha conquistato in questi più recenti anni un primo piano tra i contemporanei Marta Roberti.

Ma ora torniamo in Italia.
Nei primi tre mesi della Biennale Arte 2024, il maestro taiwanese Pahsi Lin (in foto) – CLIC per entrare nel suo sito web – presenta a Venezia un nucleo di dipinti appartenenti alla serie Infinity Art realizzati per l’occasione e testimoni delle sue più recenti sperimentazioni.
Le opere saranno allestite suggestivo salone a volte di La Cavana Gallery, un ex ricovero coperto per imbarcazioni tipico della città di Venezia situato lungo la calle che collega il Ponte dell'Accademia alla famosa passeggiata delle Zattere, al centro del Sestiere di Dorsoduro, un quartiere ricco di Musei, che comprende Gallerie dell'Accademia, Collezione Peggy Guggenheim, Palazzo Cini, Fondazione V.A.C., Fondazione Vedova e Fondazione Punta della Dogana/Pinault nonché più di qualche eccellente bàcaro da me frequentato disubbidendo al mio medico.

Estratto dal comunicato stampa.

«Pahsi Lin (Kaohsung Pingtung-Taiwan, 1960) è pittore e scultore la cui opera getta un ponte tra spirito orientale e occidentale. I suoi quadri testimoniano una conoscenza approfondita dell’astrattismo occidentale - appreso anche grazie ai lavori di maestri appartenenti a generazioni precedenti, come Ho Kan - e nello stesso tempo riconducono all’arte cinese antica, come ad esempio le ricercate citazioni di manufatti tradizionali o la riscoperta di particolari tecniche del colore.
Pahsi Lin riprende l’arte dei ‘letterati’, un tipo di pittura caratterizzata da un’unione di pittura e calligrafia che si affermò sotto l’imperatore Yuan (1271-1368) e diede vita a una forma d'arte raffinata, caratterizzata dall’uso sapiente dell’inchiostro, da pennellate ritmate e da un uso audace del colore.

Pahsi Lin crea composizioni solo in apparenza casuali, dove traspare il conflitto, il contrasto tra idealismo e realismo, tra il profondo ed il superficiale. Il suo modo di dipingere oggi, dimostra un uso attento della tecnica pittorica occidentale, ma anche una vicinanza con le opere di famosi artisti cinesi contemporanei, quali Zhang Daqian (1899-1983) e Zao Wou-ki (1921-2013), per il ruolo cruciale che il colore ebbe nella loro arte. La pittura di Pahsi Lin, come quella di Zhang Daqian, si ispira al loro particolare uso dei materiali naturali per realizzare colori più ricchi e sgargianti e nello stesso tempo sofisticati, che lo spingono sempre di più all’abbandono completo dell’oggetto reale.
Un ultimo, ma non meno importante, elemento che caratterizza le sue opere è l’utilizzo sapiente e raffinato dell’oro, anch’esso testimone di un’arte antica che riaffiora e non è mai dimenticata, che egli accosta a inchiostri e pigmenti colorati realizzati con minerali speciali e rari, provenienti da tutto il mondo.

Bai Yu (Pahsi Lin) dal 2015 è professore onorario dell'Accademia Reale di Belle Arti di Liegi in Belgio ed è editorialista per l'Hong Kong Economic Journal. Negli ultimi anni ha tenuto mostre personali in Belgio a Theuax (Biennale d‘Art), a Brionde (Festival d'Aquarelle); in Francia a Parigi (Fo Guang Yuan Art Gallery); in Italia a Milano (Galleria Scoglio di Quarto) e Monza (Villa Reale); in Gran Bretagna a Londra (Bloomsbury Gallery); in Cina a Shanghai (Yunjian Art Museum), Xiamen (Amoy art Frair), Shenyang (M56 Art Museum) e Jinan (Museum of Fine Art); Taiwan a Kaohsiung (Museum of Fine Art), Taipei (World Trade Center)
Molto legato all’Italia da alcuni anni sostiene, tramite BAI YU ART FOUNDATION da lui presieduta, gli studenti più meritevoli dell’Accademia di Belle Arti di Brera. L’iniziativa ha cadenza biennale e si è svolta nel 2019, 2021 e 2023. L’ultima edizione, lo scorso 11 dicembre, ha assegnato 7 ‘Premi Borsa di Studio’ a studenti che si sono distinti durante l’anno accademico 2022-2023 per l’impegno e la serietà nel partecipare all’attività accademica e per la qualità del lavoro. A Grazia Varisco invece è stato consegnato il ‘Premio alla Carriera’ per l'attività svolta come docente e artista.

BIG EYES INTERNATIONAL VISION è una società formata ad un gruppo di professionisti che operano da diversi anni tra Oriente e Occidente in diversi settori (turismo, non profit, arte e musica, fashion, comunicazione ecc.). La sua Mission è l’incontro di queste due diverse culture».

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Per i redattori della carta stampata, radio-tv, web:
Ufficio stampa Big Eyes International Vision
Alessandra Pozzi Mob. +39 338 59 65 789 * press@alessandrapozzi.com

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Pahsi Lin
InfinitY art
La Cavana Gallery, Venezia, Rio Terrà Foscarini, Dorsoduro 909/C
19 aprile - 07 luglio 2024
Orario: mercoledì > lunedì 11 -19, chiuso martedì
Ingresso Libero


Arte Scienza

Un’occasione per approfondire la conoscenza dei rapporti fra Arte e Scienza è data dall’omonimo web magazine.
Direttore responsabile è Luca Nicotra.

A capo della redazione c’è Isabella De Paz (in foto).

Eccola in una corsa su Cosmotaxi.

Quando è nato il magazine “Arte Scienza” e come si è formato il gruppo dei fondatori?

«ArteScienza_magazine» nasce, su mia proposta benevolmente accolta dal presidente e dal comitato di Arte e Scienza. Nasce nel dicembre del 2020 come supplemento elettronico e cartaceo del periodico telematico semestrale «ArteScienza» ed è orientato verso contenuti prevalentemente grafici e fotografici. La registrazione della testata e il Direttore responsabile (ingegnere Luca Nicotra) sono gli stessi della rivista «ArteScienza» mentre il direttore di redazione sono io: Isabella De Paz.
La casa editrice è UniversItalia S.r.l. di Roma, che già dal 2014 cura annualmente la pubblicazione dei volumi stampati annuali di «ArteScienza».

In redazione quale cosa vi guida assolutamente per prima? E quale cosa è quella che decidete per prima assolutamente da evitare?

Il requisito primario e irrinunciabile è definito nel carattere espresso nella testata della rivista madre: “La Rivista pubblica preferibilmente articoli e saggi sull'unità della cultura o che mettano in evidenza collegamenti e contaminazioni fra le discipline letterario-umanistico-artistiche e quelle scientifiche. Sono accettati anche articoli e saggi di solo contenuto storico, letterario, filosofico, artistico e scientifico, purché presentati in forma divulgativa, comprensibile anche da parte di lettori con formazione culturale non specialistica”.
Sono, quindi, assolutamente respinti articoli specialistici non espressi in forma intelligibile anche da parte dei “non addetti ai lavori”. Lo scopo primario di «ArteScienza_magazine» è lo stesso della rivista madre «ArteScienza»: favorire il dialogo fra le due culture attraverso una buona divulgazione.
Per quanto mi riguarda vivo il Magazine come una città invisibile di calviniana memoria, cioè un'opera aperta, costruita "per schede" e in tempi successivi. Mi piace di questa idea l’ispirazione diretta dal libro di Italo Calvino di cui ricordo una riflessione che è un buon consiglio per tutti: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno e farlo durare e dargli spazio».

Qual è la principale risorsa ricevuta dagli artisti dalle nuove tecnologie?

Per la prima volta nella storia umana, gioco e lavoro utilizzano gli stessi strumenti. Si tratta di una rivoluzione profonda, che genera stupore e inquietudine, sostanze stimolanti che nutrono l'incantevole autismo dell'artista scienziato e attraggono il pubblico, ansioso di trovare nell'arte stimoli e conoscenze utili anche per la vita quotidiana. La realtà aumentata, la stampa 3D, l’intelligenza artificiale e il software di elaborazione digitale hanno aperto nuove frontiere espressive, permettendo agli artisti di esplorare dimensioni inedite e di creare opere che erano inimmaginabili fino a pochi decenni fa. Queste tecnologie hanno anche democratizzato l’arte, rendendola più accessibile e coinvolgendo il pubblico in esperienze immersive e personalizzate. L’interazione tra arte e tecnologia continua a evolversi, promettendo di plasmare ulteriormente l’esperienza artistica nel futuro. L’arte, da sempre specchio dell’evoluzione umana, si trova oggi al centro di una rivoluzione digitale che sta ridefinendo il modo in cui percepiamo e interagiamo con il mondo creativo.

“Molti sono spaventati dal nuovo, a me terrorizza il vecchio”. Così diceva John Cage. Perché in molti hanno paura (fino ad avversarle) delle novità scientifiche? Da dove viene quel panico?

Il timore del nuovo è un sentimento naturale dell’uomo, che esprime anche a livello del subconscio una legge universale della Natura: l’inerzia, ovvero la resistenza ad accettare un cambiamento. Ciò vale per la fisica quanto per la psiche. La paura delle novità scientifiche, in particolare, è dovuta, oltre che all’inerzia, alla incomprensione della scienza, che è largamente diffusa anche nella nostra epoca tecnologico-scientifica, creando disagi e problemi vari. È naturale avere paura e diffidare di ciò che non si conosce. Uno degli obiettivi delle due nostre riviste è proprio quello di cercare di eliminare o quanto meno attenuare questo disagio, favorendo la comprensione della scienza da parte di persone comuni.


Anime creative (1)

Chi sono i creativi? Che cos’è la creatività?
C’è chi pensa che consista nel fare esperimenti folli. Così, ad esempio, la pensava Charles Darwin che diceva di adorarli, aggiungendo “Li faccio in continuazione”.
E sostenere che 2 + 2 fa 5 è solo un errore? Macché! È proprio questa l’arte della creatività secondo Arthur Koestler.
La creatività ha un nemico? Sicuro, Il nemico della creatività è il buonsenso risponde Pablo Picasso.

La casa editrice il Mulino ha pubblicato un imponente saggio dal titolo Anime creative Da Prometeo a Steve Jobs.
Imponente il saggio, imponente l’autore: Paolo Perulli.
Sociologo dell'economia, ha insegnato nelle Università del Piemonte Orientale, Venezia, Cambridge (Usa), Parigi, Lugano.
Tra i suoi volumi “Terra mobile” (Einaudi, 2014), “The Urban Contract” (Routledge, 2017), Il debito sovrano. La fase estrema del capitalismo” (La Nave di Teseo, 2020).
Per il Mulino: Nel 2050. Passaggio al nuovo mondo (2021).
QUI alcuni suoi articoli.

Dalla presentazione editoriale.

«Chi sono i creativi nell'epoca della conoscenza? Un viaggio nel tempo e nello spazio per capire come la creatività ha dato forma al mondo. Chi sono i creativi oggi, da dove vengono? Questo libro li colloca in una precisa genealogia: sono gli eredi di Prometeo e Faust, dell'uomo creatore di Nietzsche e dell'imprenditore innovativo di Schumpeter, delle avanguardie europee novecentesche e della grande migrazione in America, fino ai tecnologi visionari della Silicon Valley. In epoca recente, siamo rapidamente passati dall'uomo creatore, che inventa opere d'arte e d'ingegno singolari e risponde solo a sé stesso, alla classe creativa, che innova disegnando prodotti per i mercati da cui noi tutti dipendiamo. I creativi non sono una categoria privilegiata, piuttosto sono portatori di una condizione dello spirito che produce effetti universali e può dare speranza al mondo. Tuttavia, oggi non sanno di appartenere a tale tradizione e mancano di un canone. Come evitare che questa massima diffusione della creatività si trasformi in banalità, in serialità, nel vuoto creativo?».

Segue ora un incontro con Paolo Perulli.



Anime creative (2)

A Paolo Perulli (in foto) ho rivolto alcune domande.

Un gioco caro ai ludolinguisti dell’Oulipo.
Una sua definizione della creatività in 10 parole tanta quante sono le lettere che compongono quella parola

Conoscenza, relazione, emozione, attesa, transizione, innovazione, visione, immagine, tecnica, arte.

Nella stesura di questo saggio qual è la cosa che si è proposto di fare assolutamente per prima e quale cosa per prima assolutamente da evitare?

Ho voluto creare una genealogia dei creativi! Mostrare che stanno sulle spalle di giganti! Essi oggi mancano di tradizione critica e di identità collettiva. Ho voluto invece evitare la tesi della classe creativa come gruppo sociale privilegiato perché è falsa: oggi in Italia la metà degli artisti è sotto la soglia della povertà, documenta l’ISTAT.

Il concetto di creatività cambia attraversando le epoche storiche oppure ha un suo perno su cui sempre gira?

La creatività è un dono, ce lo dice il primo creativo: Prometeo, che porta in dono agli uomini il fuoco cioè la tecnica.
È quindi qualcosa che eccede la semplice utilità.

Tra le cose (poche, in verità) che non condivido del Sessantotto c’è il motto “Siamo tutti artisti”. Lei che ne pensa su quelle tre parole? La creatività appartiene proprio a tutti?

No, ma può essere insegnata e largamente diffusa, come dimostra il caso della Scuola del Bauhaus di cui il libro si occupa, che ha segnato - prima in Europa poi in America - tutte le discipline artistiche e tecniche del ‘900.

Un tema che rimbomba su tutti i media: l’Intelligenza Artificiale; sfociando anche sul piano giuridico specie sul diritto d’autore.
Dobbiamo, secondo lei, assegnare oppure no all’’IA un ruolo di creatività
?

Solo nel senso di “machina sapiens”, non nel senso di “homo sapiens”. In altri termini la creatività umana non ha paragoni, nel bene e nel male. La conoscenza è prodotta dalla sofferenza, come dice Simone Weil (“il desiderio di conoscere e comprendere non ha problemi a portar via la sofferenza”), e le macchine non soffrono…

……………………….......

Paolo Perulli
Anime creative
220 pagine * 17.00 euro
Il Mulino


Una data storica

81 anni fa fu scoperto l’LSD.

Da un librino “Millelire” (“Viaggi Acidi” di Pino Corrias, Stampa Alternativa, 1992)
.
“Zero virgola cinque milligrammi di acido lisergico in soluzione. Tre gocce, un sorso. Si siede e aspetta. Sono le due del pomeriggio di un giorno speciale, il 19 aprile 1943: il chimico Albert Hofmann, 37 anni, da cinque impegnato in esperimenti sugli alcaloidi contenuti nella segale cornuta, ha appena ingerito la prima dose di Lsd della Storia. Aspetta, e ancora non sa di avere appena socchiusa quella che Aldous Huxley, un decennio più tardi, avrebbe chiamato la Porta della Percezione. Ancora non sa che quella sostanza incolore avrebbe conquistato ragazzi californiani, musicisti anglosassoni, scrittori, filosofi di tante parti del mondo”.

Albert Hofmann (in foto) nell'ottobre 2007 è stato inserito nella classifica dei 100 Geni Viventi alla prima posizione, a pari merito con Tim Berners-Lee, inventore del World Wide Web.
Nato nel 1906 è morto all’età di 102 anni nel 2008.

Una sua frase celebre: “Invece di sprecare tutte queste energie e sforzi diretti a far guerra alle droghe, perché non si presta attenzione a droghe che possano porre fine alla guerra?”


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